Risparmi e risparmiatori: liquidità non sempre è sinonimo di sicurezza

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Cosa vogliono i clienti?

Tutti coloro che risparmiano sono mossi da motivazioni differenti, ma quando pensano al trattamento da riservare a ciò che hanno accantonato, la sicurezza è il trattamento che prediligono. “Prima di tutto, non voglio perdere; poi, si può provare a vedere come incrementare i miei risparmi”: questo è il modo di pensare della maggior parte dei clienti.

Di per sé, non c’è nulla di cui stupirsi: è un comportamento di sopravvivenza che ha caratterizzato la nostra evoluzione e che, in gran parte, è connaturato con gli esseri umani. Safety first, dicono gli anglosassoni, proprio a voler evidenziare che l’obiettivo primario dell’individuo è salvaguardare ciò che si è procacciato e proteggerlo da ogni possibile insidia. Dopodiché, eventualmente, incrementare la provvista.

È da rimarcare che, tanto più quello che è stato accantonato è frutto di lavoro e sacrificio, tanto più si desidera che sia al sicuro e tutelarlo. Non di rado, la disponibilità ad aumentare la propria propensione al rischio riguarda eventuali somme la cui origine è quella di una vincita o di un’eredità, piuttosto che di risparmi connessi allo sforzo e alla fatica.

Ovviamente, è una questione psicologica assai nota, che evidenzia una violazione del principio di fungibilità del denaro, ma davanti alla quale – come consulenti – non ci meravigliamo affatto, consapevoli della contabilità mentale, quale pregiudizio cognitivo inconsciamente utilizzato attraverso tale approccio comportamentale.

L’illusione di sicurezza

Tutti sanno cos’è un’illusione ottica, ma pochi riflettono sul fatto che inganni simili possono riguardare anche la nostra mente e possono spingerci ad assumere atteggiamenti falsamente efficaci e protettivi. Tra questi, una menzione particolare spetta all’illusione di sicurezza generata in moltissimi clienti dalla determinazione di tenere la propria liquidità su conti e depositi infruttiferi.

Il tema è stato (e continua a essere) abbondantemente dibattutto; ritengo, quindi, opportuno soffermarmi solo su pochi ma importanti aspetti, particolarmente salienti, che ogni risparmiatore dovrebbe attentamente ponderare, prima di crogiolarsi nell’idea che “stare liquidi è la soluzione”:
▶ l’impatto dell’inflazione è visibile solo a medio-lungo termine;
▶ esiste una differenza sostanziale tra inflazione statistica e inflazione familiare;
▶ l’eccessiva enfasi sul breve termine distrugge ogni forma di aspirazione verso un livello di benessere prospettico realmente sostenibile;
▶ il concetto di sicurezza dei risparmi va sostituito con quello di livello di sicurezza e non va confuso con quello di garanzia del capitale;
▶ la scelta strutturale dell’immobilismo minaccia la realizzazione dei progetti di vita.

La rana bollita

Ai più è noto il principio metaforico della rana bollita, espresso dal filosofo americano Noam Chomsky.
Il suo utilizzo in questa sede è volutamente provocatorio e mira a sottolineare l’atteggiamento anestetizzato, indotto dall’accessibilità immediata dei risparmi sul conto corrente, che impedisce di comprenderne le insidie latenti.

Le preferenze per le soluzioni liquide, che rispondono genericamente a esigenze di carattere ‘precauzionale’, costano tanto in termini di erosione del potere d’acquisto del denaro, senza contare come i bolli e gli oneri finanziari accessori possano gravare nel tempo sulle giacenze inerti.

La percezione che questa disponibilità immediata rappresenti un’adeguata difesa dagli imprevisti conduce a comportamenti miopi e antieconomici, che – sebbene comprensibili sotto il profilo emotivo – impediscono di affrontare correttamente il processo di pianificazione finanziaria-patrimoniale e di gestirne efficacemente i rischi connessi.

Incertezza, timori sul futuro e scarsa alfabetizzazione finanziaria rappresentano un mix esplosivo che connota questa lunga parentesi temporale e che rischia di deflagrare proprio a danno di chi ritiene che i depositi a zero rappresentino, in assenza di rendimenti obbligazionari soddisfacenti, la soluzione più tranquillizzante o, semplicemente, il male minore.

Fare i conti con l’inflazione familiare

In uno scenario di inflazione statistica contenuta, la percezione del rischio riguardo al suo impatto sul potere d’acquisto è, purtroppo, eccessivamente contenuta, a causa di un’inadeguata capacità di quantificazione e di comprensione dei suoi effetti nel tempo.

Tuttavia, più che guardare al dato ISTAT, i clienti dovrebbero porre maggiore attenzione all’inflazione familiare, cioè a quel dato che consente di vagliare a quanto effettivamente ammonta, anno dopo anno, l’incremento delle uscite monetarie per beni e servizi consumati dalla famiglia: bollette, libri scolastici, carburante, ecc…

Questa è (o dovrebbe essere) la vera dimensione economica da analizzare e da presidiare, poiché essa permette di constatare, in modo più puntuale ed esaustivo, come tale crescita dei costi determina, nel tempo, la capacità di spesa e di risparmio della famiglia e definisce lo standard di vita a cui si può realisticamente aspirare.

Diversi autori, economisti e politici sottolineano anche come l’enorme quantità di liquidità sui conti, se opportunamente investita o ben spesa, potrebbe rappresentare un buon motore per la ripresa della domanda interna. A mio parere, questo non rappresenta, sotto il profilo consulenziale, un fattore capace di generare leva nei clienti, tendenzialmente poco propensi a supportare un Sistema-Paese che percepiscono solitamente distante dalle loro reali necessità e vorace solo quando si tratta di toccare i loro averi.

La consulenza come supporto

Secondo una ricerca del maggio scorso svolta da Excellence Consulting, la liquidità che giace sui conti correnti non investita, o non messa a reddito, dipende essenzialmente da due fattori: da un lato la paura e l’incertezza nel futuro conseguenti all’emergenza pandemica, dall’altro la maggiore o minore capacità di fare consulenza da parte di banche e intermediari. In particolare, si rileva che nelle banche tradizionali il livello di incidenza della liquidità in rapporto al patrimonio affidato è superiore rispetto al medesimo dato riferito ai clienti dei consulenti delle reti o a quelli dei consulenti indipendenti.

Certamente, è un riscontro riferito al campione analizzato e il responso non va generalizzato senza un’opportuna analisi che riguardi i singoli player. Tuttavia, il dato che emerge segnala un elemento che non va affatto trascurato: il cliente va seguito secondo modi e tempi che egli stesso deve imparare a dettare.

Il percorso professionale di consulente e cliente non può prescindere dalla condivisione di un metodo, dalla credibilità del professionista e dall’autorevolezza che quest’ultimo è in grado di esercitare su chi gli affida la gestione dei propri risparmi, a prescindere dal contesto (dentro o fuori la banca tradizionale) in cui questo si concretizza.

È compito degli intermediari creare le migliori condizioni affinché ciò avvenga, per ottemperare alla logica cliente-centrica, così fortemente sottolineata anche dalla normativa, ma che rappresenta di fatto l’unico vero approccio di una consulenza che meriti di essere definita realmente ‘evoluta’.

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