


Teoria attendibile o ipotesi fantasiosa?
Che cosa penseresti se qualcuno ti dicesse che le diverse abitudini (e attitudini) degli individui verso il risparmio, verso i piani pensionistici, verso gli investimenti e, più in generale, verso le decisioni economiche dipendono dalla loro lingua?
Potresti immaginare che un soggetto anglofono abbia comportamenti economico-finanziari differenti rispetto ad un soggetto di un altro idioma germanico? Proprio, o soprattutto, a causa della lingua parlata?
Capisco che l’ipotesi possa sembrare audace, o addirittura bizzarra, ma ci sono ragioni ed evidenze che la rendono piuttosto concreta e ne fanno un’interessante tesi che merita quantomeno un approfondimento.
Ma andiamo per ordine, procedendo con alcune considerazioni preliminari, prima di scrutare più da vicino gli aspetti salienti di questa stimolante teoria.
La lingua influenza i comportamenti umani
È impossibile negare l’importanza che, nel tempo, il linguaggio e le lingue hanno assunto nello sviluppo dell’uomo e, in particolare, in quegli ambiti in cui egli si è dovuto confrontare con i suoi simili. Il linguaggio, come funzione cognitiva, è uguale per tutti, mentre le lingue e le loro strutture variano da popolo a popolo e possono essere tra loro profondamente diverse.
All’inizio del XIX secolo, il linguista tedesco Wilhelm von Humboldt sottolineò come la lingua fosse ben più di un mezzo di comunicazione: essa rappresentava anche la vita interiore dei suoi parlanti. A seguire, altri studi e teorie sono stati influenzati da questo assunto: nella prima metà del Novecento, Edward Shapir e Benjamin Whorf ipotizzarono che lingua e cultura sono interdipendenti e che “la struttura della lingua che usiamo influenza il nostro modo di pensare, di osservare e di comportarci”.
Sebbene questa ipotesi, almeno nella sua forma estrema, risulti piuttosto azzardata e sia stata pesantemente contestata dal successivo filone di studi di Noam Chomsky, più di recente essa è stata oggetto di rinnovato interesse da parte della psicologia cognitiva e di diversi autori, tra cui spicca il noto linguista George Lakoff, il quale sostiene, per esempio, che le discussioni politiche si basino su fitti intrecci di metafore concettuali sottese nell’uso della lingua.
Il fattore “tempo” e la sua rappresentazione
Più di recente i ricercatori hanno manifestato punti di vista fortemente discordanti riguardo al grado di influenza che il linguaggio esercita sul pensiero. Tuttavia, queste contrapposizioni – lungi dall’inibire l’interesse e lo spirito di indagine – sembrano aver dato un nuovo impulso a questo ambito, concretizzandosi in un gran numero di ricerche innovative.
Una delle principali controversie su cui i filologi hanno dibattuto (e continuano a confrontarsi) riguarda la nozione del tempo nelle varie lingue. Scienziati cognitivi e linguisti, accettando l’idea che le concezioni del tempo siano diverse tra le varie lingue, hanno profuso notevoli sforzi per comprendere in modo adeguato questo aspetto e i risultati sono decisamente interessanti.
In particolare, la lingua mandarino fa un uso del tempo in verticale, come se avesse una traiettoria verso l’alto o verso il basso, e usa termini verticali per descriverlo. Gli anglofoni, invece, percepiscono il tempo orizzontalmente (dietro e avanti). Il Kuuk Thaayorre, una lingua aborigena australiana, sembra rappresentare il tempo in movimento da est a ovest.
“La lingua conta”: parola di Chen
Nel 2014, Keith Chen, economista comportamentale e docente universitario alla UCLA Anderson School of Management, ha pubblicato uno studio capace di attrarre notevole attenzione e il cui interesse è andato ben oltre il perimetro accademico. Chen ha voluto, infatti, verificare che le lingue che associano grammaticalmente il futuro e il presente, favoriscano comportamenti orientati al futuro.
La suggestiva teoria dell’accademico di origini cinesi ipotizza che gli individui, che parlano lingue che consentono di fare riferimento a eventi futuri con il tempo verbale presente, pensano al futuro come a qualcosa di più immediato: questo produrrebbe interessanti implicazioni nelle scelte intertemporali di risparmio e di investimento.
Per esempio – afferma Chen – un tedesco che per domani predice la pioggia potrà normalmente usare il tempo presente; la frase “Morgen regnet es” si traduce in inglese come “It rains tomorrow”. Tuttavia, in inglese, questa non è una frase corretta, dovendo invece dire “It will rain tomorrow”. L’uso del modale “will” per denotare il futuro è quasi sempre necessario in inglese, ma non lo è in tedesco.
Ne deriva che la lingua inglese, come altre con caratteristiche simili, richiede ai suoi parlanti di codificare una distinzione tra eventi presenti e futuri, mentre il tedesco (e altre lingue strutturalmente affini) no. L’autore si propone di appurare se questa peculiarità possa influenzare le scelte intertemporali dei parlanti, portandoli ad intraprendere azioni più o meno orientate al futuro.
Cosa emerge dalla ricerca
Alcune lingue, come il cinese, non hanno un tempo verbale preciso per indicare il futuro; i cinesi – da parte loro – manifestano una propensione al risparmio del 30% maggiore rispetto a chi parla lingue più definite. Chen ritiene che questo possa essere spiegato dal fatto che “identificare linguisticamente il futuro in modo distinto dal presente lo rende più lontano, motivando meno a risparmiare”.
Per esempio, in inglese e in spagnolo un parlante è costretto ad apportare modifiche alla struttura di una frase quando parla del futuro rispetto al presente (ad es. “sarà …” anziché “è …”). Il finlandese e il mandarino, al contrario, possono usare il tempo presente quando parlano di eventi futuri. Lo studio di Chen ha evidenziato che i parlanti di una lingua con un futuro fortemente grammaticalizzato hanno meno probabilità di risparmiare denaro.
Secondo il ricercatore, una pressione costante per contrassegnare il tempo presente come diverso dal futuro nel proprio linguaggio può, per contrasto, far sembrare il futuro temporale più lontano. Questo porterebbe a uno sconto della potenziale ricompensa in futuro per un costo pagato nel presente (risparmiare invece di spendere) e, quindi, indurrebbe quel parlante a spendere piuttosto che a risparmiare.
In altre parole, se il futuro sembra più lontano, si è meno preoccupati di prepararsi per il futuro.
La ricerca in questione ha delle basi interessanti e i dati utilizzati sulle varie differenze linguistiche sono certamente attendibili. In questo Ted Talk del 2012 lo stesso Keith Chen anticipa alcuni degli aspetti più salienti della sua pubblicazione, fornendo indicazioni che toccano anche altri ambiti, e illustra i tassi di risparmio (in percentuale sul PIL) dei Paesi OCSE al 2012 nel periodo 1985-2010.

Dimmi come parli e ti dirò che risparmiatore sei
Ricapitolando: più una lingua può esprimere con la propria struttura grammaticale un futuro immediato, più i suoi parlanti madrelingua sono inclini a prendere in considerazione gli eventi futuri quando prendono decisioni oggi, essendo capaci di generare un tasso di risparmio più elevato, di investire di più nei piani pensionistici, andando in pensione con montanti più ricchi.
Qual è la differenza media tra i Paesi che linguisticamente hanno un riferimento al tempo futuro forte (come l’inglese) e quelli che non ne hanno, o ne hanno uno debole? Chen parla di 5 punti percentuali di PIL in più risparmiati all’anno dai secondi rispetto ai primi.

Ovviamente, questi risultati sono indicativi, ma lo studio completo tiene conto di una serie corposa di ulteriori variabili e riesce a giungere a conclusioni che presentano, a mio parere, un più che plausibile grado di attendibilità.
La comunicazione e i suoi effetti
Come consulente e studioso dei comportamenti e dei meccanismi di comunicazione, ritengo da sempre che il linguaggio e le parole siano potenti strumenti, capaci di esercitare un’influenza sul modo in cui ogni individuo pensa, sui valori che condivide e sulla vita che conduce. Conta quello che diciamo, e ancora di più quello che ci diciamo, nel senso che i concetti e le parole che usiamo per parlare a noi stessi hanno un’importanza assoluta.
La teoria esposta ha lo scopo di essere solo un espediente per fare delle riflessioni su come i clienti siano auto-condizionabili, spesso in modo inconsapevole.
“Farò questa valutazione tra qualche tempo”, “Me ne occuperò appena possibile”, “Ci ragionerò sopra con un attimo di calma”: frasi ricorrenti coniugate al futuro che forniscono al cervello una percezione di non-immediatezza e, quindi, la possibilità di una procrastinazione indeterminata.
Non si tratta di un’equazione perfetta e usare il presente invece del futuro non garantisce effetti immediati e comportamenti virtuosi, ma bisogna riflettere su come gli auto-condizionamenti siano dovuti anche a questi aspetti linguistici, capaci di generare effetti di incorniciamento che, nel caso dei clienti italiani, favoriscono condotte pigre e temporaggiamenti in grado di compromettere un corretto approccio ai piani pensionistici e agli investimenti.
Per quanto possa sembrare un esercizio di stile, può essere utile che i consulenti rappresentino “i problemi e le esigenze future” del cliente con il tempo presente, attualizzandone le conseguenze e generando quel senso di urgenza che altrimenti, per molti assistiti, resta un qualcosa di occuparsi, solo quando se ne dovranno, invece, seriamente preoccupare. Il che significa, quando potrebbe essere troppo tardi.


