La consulenza ha bisogno di tempo e di metodo

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In banca si vende o si fa consulenza?

Vado subito al sodo: sono in tanti a pensare che nella maggior parte delle filiali bancarie tradizionali (e in quelle postali) la parola consulenza sia solo un termine di facciata per mascherare un’attività che di consulenziale non ha nulla. In realtà, l’obiettivo principale è vendere il fondo a finestra, il certificate o la polizza di turno necessari a fare il budget periodico.

Molti clienti sembrano volersi smarcare da queste situazioni che, evidentemente, percepiscono come poco funzionali ai propri interessi; da parte loro, i consulenti bancari cercano di raggiungere i target assegnati e di limitare le scorie dello stress accumulato per gli input commerciali che – a loro dire – diventano sempre più pressanti. È un corto circuito bello e buono in cui, spesso, a farne le spese è la fiducia tra le parti, dal momento che vendere prodotti implica diventare responsabili degli “esiti” di quei prodotti.

“È una questione di lana caprina”, tuonano alcuni manager bancari. “Vendiamo tutti e vendiamo tutti i giorni; c’è chi vende elettrodomestici e chi prodotti finanziari.” , è vero, vendiamo tutti e tutti i giorni; no, non è una questione di lana caprina. Il punto è un altro: chi compra un elettrodomestico, lo fa perché gli serve o perché gli piace. Per quale motivo, invece, un cliente compra, o dovrebbe comprare, un prodotto finanziario? La risposta e le sue implicazioni determinano il resto.

A chi piace ricevere proposte commerciali per telefono?

Anche le persone più placide perdono le staffe quando devono fare i conti più volte al giorno con gli operatori di telemarketing e di teleselling. C’è chi ci chiama per svelarci come pagare una bolletta meno salata, chi per dirci che possiamo avere la pay-tv scontata, oppure chi ci chiede di fissare un appuntamento col referente di zona per farci testare le mirabilie di quell’elettrodomestico che ci cambierà la vita.

Premesso che non ho nulla contro chi è impegnato fisicamente e mentalmente in questo tipo di lavoro (spesso massacrante da più punti di vista), è evidente che questa modalità di offerta generi in molti potenziali clienti un certo fastidio, a causa della frequenza delle chiamate e per via di una sollecitazione continua e non richiesta che sfocia quasi inevitabilmente in irritazione.

D’altra parte, è piuttosto plausibile che le società che fanno uso di questo approccio riescano a conseguire tassi di redditività più che accettabili, se continuano a farvi ricorso in modo così massiccio. Se sui grandi numeri questa impostazione funziona, perché non usarla? Ignorando, o quasi, che sebbene a tutti piace comprare, nessuno vuole essere spinto a farlo. Tanto meno dalle due alle cinque volte al giorno.

È una questione di approccio

Oggi molti consulenti bancari si trovano a usare il telefono dando ai propri clienti una sensazione non molto diversa da quella degli operatori di teleselling. Chi lo dice? La maggior parte dei consulenti stessi, che si lamenta di una modalità ritenuta eccessivamente invasiva e che – a loro dire – porta i clienti a guardare alla banca come a una realtà che si muove con le stesse logiche dei venditori telefonici.

La modalità raccontata è sinteticamente questa: dai CRM emergono i nomi dei clienti da contattare per una o più campagne commerciali e, ovviamente, i referenti si attivano per farlo nei tempi e nei modi possibili, considerando i complessi risvolti dell’operatività bancaria giornaliera in cui gli stessi sono coinvolti. Non sempre le telefonate possono essere preparate in modo adeguato e spesso ci si ritrova a contattare clienti già chiamati settimane prima da un altro collega per la medesima campagna.

Questo approccio sembra irritare molti dei clienti coinvolti, che si dichiarano disinteressati a qualsiasi cosa gli venga proposto e, nel caso, generalmente avversi ad accettare un appuntamento in filiale per parlare di persona col consulente.
“Non mi interessa, tanto avrete come sempre qualcosa da vendermi”,
“Guardi, evitiamo di perdere tempo in due, perché se ho bisogno mi faccio vivo io”.
Queste sono solo due tra le tante (e più edulcorate) risposte raccolte, che com’è logico lasciano l’amaro in bocca ai bancari.

Budget e consulenza: due inquilini potenzialmente rissosi

Il mio proposito non è discettare sugli aspetti organizzativi o sulle logiche commerciali usate nelle filiali delle banche tradizionali (o delle Poste). Sono conscio che parlare dal di fuori o criticare questi approcci possa risultare un esercizio facile, ma ai fini delle mie considerazioni sarebbe solo estremamente sterile. Mi piace partire dal presupposto che, a tutti i livelli – davanti ai compiti da svolgere -, ognuno cerca di fare del proprio meglio, attingendo a quello che ha, a quello che sa e a quello che è. Già! Anche a quello che è.

Per esempio, ci sono coordinatori e responsabili che, nel distribuire gli obiettivi commerciali ai consulenti di filiale, si limitano a:
dire di fare,
altri che invece
dicono come fare,
mentre altri ancora
dicono cosa fare e fanno vedere come farlo.
Intendo dire che ognuno dà un indirizzo in funzione del proprio sapere, del proprio saper fare e del proprio modo di essere. L’autoritario non userà modi e toni accattivanti, mentre quello più empatico darà la giusta attenzione anche alla forma. È abbastanza intuitivo capire quale tra questi approcci sia il più discutibile.

In tutti i casi, la richiesta per i consulenti è comunque la stessa: aumentare il cross-selling e migliorare l’up-selling, portando a termine le campagne commerciali con il massimo ritorno possibile. D’altronde, è noto che i conti economici di filiale richiedano ossigeno in modo costante e la forbice dei tassi, ormai chiusa da un pezzo, porti a far crescere l’attenzione sui ricavi da servizi. Tanti consulenti bancari storcono il naso di fronte a sollecitazioni ritenute sempre più eccessive, che devono contemperarsi a una pluralità crescente e variegata di mansioni.

Tempo e metodo

Alcuni giorni fa, a margine di un convegno, un middle-manager di una banca mi ha chiesto: “Ma quali sono secondo te gli ingredienti necessari per fare una consulenza efficace anche in filiale?” Gli ho risposto che sono gli stessi che servono per fare una buona consulenza dappertutto: tempo e metodo.
La consulenza deve contemplare conoscenze e competenze di vario tipo a cui attingere per costruire un proprio metodo, efficace quanto elastico.

Soprattutto, però, la consulenza non è compatibile con la fretta. Gli incontri con i clienti non possono essere “a tempo”, peggio ancora se con un pushing specifico verso un prodotto. Se la realizzazione degli obiettivi commerciali diventa una priorità rispetto al soddisfacimento delle esigenze dei clienti, che vanno indagate e condivise, allora siamo davanti ad un mero, seppur legittimo, processo di tentata vendita, in cui il consulente-venditore si focalizzerà solo su ciò che gli garantisce il risultato. A breve termine. Per poi ricominciare daccapo.

In condizioni simili, anche un professionista esperto difficilmente avrà il tempo per ascoltare adeguatamente il cliente e coglierne i bisogni meno palesi. “Il tempo è tiranno”, dicono molti consulenti bancari “e dobbiamo fare di necessità virtù”. Dal loro punto di vista è comprensibile, ma il processo consulenziale è un’altra cosa; esso esige un approccio che parta dall’indagine accurata e arrivi a stabilire le soluzioni di prodotto come risultato finale, non come premessa di un incontro. Il prodotto in sé stesso non è rilevante agli occhi del cliente!

Non è un problema di etichetta

Un processo di tentata vendita e un processo di consulenza sono due percorsi distinti con punti di tangenza, ma non sono iter sovrapponibili. Come ho detto tempo addietro in questo articolo, la disputa non è tra consulenti e venditori e, soprattutto, non se ne deve fare una questione di etichetta. Bisogna portare i clienti a diventare consapevoli dell’importanza della pianificazione e a richiedere le soluzioni utili alle loro situazioni; questo è ciò che conta.

Se, al di là degli slogan, le banche vogliono davvero aspirare a essere (o a diventare) cliente-centriche hanno la necessità di rivedere alcuni aspetti e migliorarne altri. La qualità del servizio, ottenibile con un vero approccio consulenziale, può rappresentare la spinta propulsiva verso la marginalità desiderata. Se non lo si capisce, non lo si fa; e, se non lo si fa, si continuerà a tenere in piedi un approccio che non piace né ai clienti, né ai loro referenti bancari, per i quali questo modus appare persino squalificante.

La vendita è una nobile arte che in banca assume una pessima reputazione. Non è difficile capirlo. C’è chi sostiene che la vera consulenza sia possibile solo in assenza totale di conflitto di interessi, e che c’è sempre un conflitto di interessi se il professionista è brandizzato. Ho delle perplessità in merito, ma non entro nella disputa. Tuttavia, mi pare chiaro che se – a proposito dei referenti bancari – si parla con sempre maggior insistenza di consapevolezza del ruolo, è bene una volta per tutte che si stabilisca davvero quale sia il loro ruolo nella relazione coi clienti: vendere prodotti o vendere soluzioni?

In assenza di questo semplice passaggio, la confusione che ne deriverà sarà un problema tanto per i diretti interessati quanto per i clienti. La consulenza ha le sue ragioni, che le ragioni della vendita non conoscono.

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