Demografia e Welfare: vivere più a lungo non deve essere una condanna

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Più longevi, ma attenzione alla qualità della vita!

In Italia la durata della vita media rappresenta un fattore degno di menzione, poiché pone il Paese in una sorta di élite planetaria, di cui fanno parte anche Giappone, Spagna e Francia. Nel 2019 l’aspettativa di vita nella Penisola era di 83 anni; la pandemia ha leggermente modificato le cose riducendo di 1,32 anni questo dato, e all’appello mancano ancora i numeri del 2021 che potrebbero abbassare, seppur in modo marginale, questa componente.

Ma, nonostante l’infausta parentesi sanitaria, il dato in questione continua a essere di tutto rispetto e la struttura demografica italiana resta decisamente robusta. Tutto bene, quindi? Non proprio! Ciò che preoccupa è una criticità, già rilevata prima dell’emergenza pandemica, che deve indurre a una serie di riflessioni: l’invecchiamento della popolazione è sempre più spesso accompagnato da malattie croniche e da malattie disabilitanti.

Dalle rilevazioni presenti nell’ultimo studio fatto dal Global Burden of Desease emerge che la situazione italiana è in sensibile peggioramento, almeno rispetto a una parte dell’Europa. La ricerca indaga i livelli e le tendenze dei cosiddetti YLDs (Years Lived with Disability), cioè gli anni vissuti in un cattivo stato di salute o in condizioni di disabilità. L’incremento di questo dato per l’Italia è pari al 20,2% (rispetto al 1990), il che significa che, mediamente, gli ultimi 30 anni di vita possono essere all’insegna di una qualche disabilità.

Secondo l’Osservatorio Nazionale sulla Salute nelle Regioni Italiane, le malattie croniche nel 2019 hanno interessato quasi il 40% della popolazione, cioè 24 milioni di persone, di cui 12,5 milioni con multicronicità.
I più colpiti risultano essere le donne e i cittadini con un basso livello di istruzione. Sempre secondo l’Osservatorio, nel 2028, ci saranno 25 milioni di malati cronici per i quali sarà richiesta una spesa assistenziale pari a quasi 71 miliardi di €.

Un patto intergenerazionale che scricchiola

Come molti altri Paesi, anche l’Italia adotta un sistema pensionistico a ripartizione basato su un patto intergenerazionale, per mezzo del quale l’equilibrio tra entrate e uscite dovrebbe essere garantito dai contributi dei lavoratori attivi, che sostengono le prestazioni di coloro che sono già in pensione. A loro volta, i lavoratori di oggi dovrebbero poter contare sui contributi dei lavoratori del futuro per vedersi garantite le proprie pensioni alla maturazione del diritto.

Si tratta di un equilibrio molto più instabile di quanto sembri, poiché un eventuale futuro sbilanciamento negativo (tutt’altro che improbabile) da parte dei lavoratori attuali comporterebbe la necessità di attingere alle casse statali per garantire le prestazioni pensionistiche degli aventi diritto. E questo è certamente un rischio di cui tener conto, se si considera che una precaria economia nazionale comporta più disoccupazione e, quindi, meno introiti per il fabbisogno previdenziale.

I giovani con range di età 18-35 anni sono ovunque già meno dei residenti con più di 65 anni, con poche eccezioni come la provincia di Caserta e di Napoli. Il campanello di allarme è noto da tempo e i vari correttivi messi in atto negli ultimi due decenni, unitamente a fattori di stabilizzazione come l’adeguamento dell’età pensionabile all’aspettativa di vita, hanno avuto l’obiettivo di correggere una rotta che altrimenti avrebbe condotto a un crack inesorabile.

Tuttavia, chi pensa che il pericolo sia scampato scivola in un ottimismo facile e arbitrario. In questo tipo di analisi, infatti, bisogna tener conto anche di altri fattori, come il tasso di natalità che si conferma una nota dolente e che, guardando al futuro, non regala prospettive tranquillizzanti, pensando anche alla staffetta generazione. Anche nel 2021, nel suo report sulla dinamica demografica, l’Istat rileva che i neonati sono stati meno di 400.000, in diminuzione dell’1,3% rispetto al 2020 e quasi del 31% a rispetto al 2008.

La (in)sostenibilità del Sistema

Chi pensa che l’Italia spenda per il welfare meno degli altri Paesi dell’Unione Europea è fuori strada! Al contrario, la spesa sociale è molto elevata e cresce a ritmi difficilmente sostenibili; nel 2019, a questa voce è stato destinato il 56% dell’intera spesa statale. Tuttavia, il mostro da domare non è quello della spesa per le prestazioni di natura previdenziale, ma è quello per l’assistenza che si conferma il punto debole del welfare state italiano.

Sebbene, infatti, la spesa pensionistica sia in aumento (+4,66 mld di € dal 2018 al 2019), tale voce viene considerata sotto controllo e la sua incidenza sul PIL appare in linea con quella europea. Il vero bubbone – sostiene Alberto Brambilla, Presidente del Centro Studi e Ricerche Itinerari Previdenziali – “è l’esplosione di forme assistenziali messe impropriamente sotto il capitolo pensioni”.

Nel 2019, la spesa per prestazioni assistenziali (invalidi civili, indennità di accompagnamento, pensioni e assegni sociali e pensioni di guerra) ha avuto un costo complessivo di quasi 23 mld di €, rimarcando un trend in costante crescita negli ultimi 8 anni. Sebbene le altre prestazioni assistenziali siano in lieve calo, i beneficiari di prestazioni totalmente o parzialmente assistite sono, più di 7,7 milioni, cioè il 48,2% dei pensionati totali.

“È quasi assurdo – afferma ancora Brambilla – pensare che, in un Paese come l’Italia, quasi il 50% di pensionati non sia stata in grado di versare neppure 15/17 anni di contributi regolari e debba quindi essere assistita dallo Stato”. Il concetto è piuttosto chiaro: le disfunzioni del Sistema e un’annosa inadeguatezza politica hanno prodotto un’incredibile quantità di pensionati che si ritrova a dover essere sostenuta dai contributi versati da qualcun altro.

Alla ricerca del prossimo “scivolo”

Chi inizia a lavorare oggi andrà in pensione quasi certamente oltre i 70 anni. Sono sette i Paesi dell’OCSE che hanno collegato l’età pensionabile prevista per legge alle aspettative di vita; tra queste c’è anche l’Italia, che cerca con questo espediente di riuscire a garantire le sorti future di un Sistema di cui sono ormai note le principali falle e che, nella migliore delle ipotesi, sembra destinato a ritocchi continui, in attesa di una riforma coraggiosa capace, innanzitutto, di separare le prestazioni previdenziali da quelle assistenziali.

Quota 100 ha permesso di andare in pensione a 62 anni con 38 anni di contributi, cioè cinque anni prima rispetto all’età pensionabile prevista dalla legge. Era stata pensata per aiutare le fasce più deboli, invece a usufruirne maggiormente sono stati i lavoratori del settore pubblico con redditi medi. Doveva garantire un ricambio generazionale, invece il tasso effettivo di ricambio è stato dello 0,40%. L’ottica, anche in questo caso, si è rivelata assolutamente miope e il problema resta più scottante che mai per le nuove generazioni.

Chi decide di sfruttare le uscite anticipate concesse dalle riforme nazionali, e quelle proposte dalle condizioni intra-aziendali in occasione di fusioni, piani industriali, ecc…, è mosso dalla volontà di approfittare quanto prima della possibilità di arrivare a un traguardo che, altrimenti, rischia di protrarsi a data da destinarsi. L’aleatorietà e il senso di incertezza, quale vere uniche costanti garantite dalla politica nazionale, spingono i lavoratori a entrare nel novero dei pensionati il prima possibile, se necessario anche a costo di penalizzazioni, considerate di fatto come un male minore.

Effettuare scelte oculate

Secondo il Rapporto Edufin del 2021 (pag. 14), gli italiani che patiscono una forma di ansia finanziaria sono circa il 30%, con una significativa differenza di genere a discapito delle donne. Questo fattore stressorio ha un impatto negativo sul livello di benessere finanziario delle famiglie  e comporta il ricorso a differenti strategie per gestire le difficoltà economiche in cui esse incappano: le principali sono quelle relative alla compressione dei consumi e all’utilizzo dei risparmi accantonati.

Da quanto detto fin qui, ci sono essenzialmente due tipi di possibili scoperture previdenziali verso cui gli italiani si troveranno esposti nei prossimi anni: pensione e autosufficienza. Sarebbe opportuno, quindi, adottare soluzioni che sin da subito consentano di affrontare le crescenti lacunosità del sistema statale. Tuttavia, (parafrasando uno dei più noti motti in ambito finanziario), progettare forme di tutela personale che permettano di ridurre questi gap è semplice, ma non è facile.

Una delle barriere psicologiche più rilevanti è quella che impedisce a molti risparmiatori di effettuare una giusta ponderazione tra i costi e i benefici insiti negli strumenti che, assicurativamente, sono pensati per proteggere dai rischi di autosufficienza e di una pensione inadeguata: Long Term Care (LTC) e Fondo Pensione. Gli addetti ai lavori devono favorire questa analisi, essendo trasparenti sui costi reali e mostrando ai clienti i benefici, anche psicologici, che soluzioni di questo tipo possono apportare.

Sempre di più è consigliabile ragionare (e far ragionare le persone) sul concetto di vulnerabilità patrimoniale, quale fattore da monitorare costantemente, individuando i rischi personali e professionali che – in caso di manifestazione – potrebbero mettere a repentaglio il tenore di vita della famiglia e generare danni economici di grande entità. Tali rischi dovrebbero essere trasferiti senza esitazione a una compagnia assicurativa, per evitare impatti patrimoniali potenzialmente difficili da sostenere.

“Oggi” è il momento giusto

Fare i conti con il fatalismo non è un gioco da ragazzi. C’è chi vi fa ricorso per avversare l’adozione di opzioni assicurative (“a me non succede” … “sono troppo giovane” …) e c’è chi lo usa come freno di un’azione che dovrebbe essere maggiormente tempestiva (“va bene, sono convinto ma aspetto l’anno prossimo” … “e se poi cambiano le leggi” …  “aspetto di avere uno stipendio più alto” …). La disabitudine a pianificare e a confrontarsi con certe logiche diventa una zavorra difficile da rimuovere.

Cominciare ad accantonare il prima possibile non è più un’opzione prorogabile; farlo in modo da sfruttare il meccanismo dell’interesse composto (concetto sconosciuto al 60% degli italiani) è una prerogativa indispensabile per difendersi anche da fattori più o meno contingenti, come l’alta inflazione. Convogliare il TFR in un fondo pensione è una soluzione utile da un punto di vista fiscale sia per i lavoratori che per le aziende. Se e quando ci sarà una soluzione più adeguata di questa, allora potrà essere presa in considerazione.

Sebbene dobbiamo tener conto dei limiti cognitivi ed emotivi in cui come esseri umani possiamo incappare, è necessario superare richiami scaramantici e sviluppare strategie che vadano oltre i buoni propositi, attivandoci per perseguire il disegno di una terza e quarta età caratterizzati da assoluta dignità. Al contempo, che ci piaccia o meno, dobbiamo attrezzarci per affrontare eventuali situazioni spiacevoli che dovessero presentarsi in ambito di salute o di non-autosufficienza.

Fidarsi e affidarsi alle proprie risorse, facendole lavorare per sé stessi è un obiettivo alla portata di tutti. Vivere a lungo non può e non deve diventare una condanna, almeno quanto non deve esserlo dover affrontare le conseguenze della longevità. Tarare le cifre in base alle proprie possibilità economiche permetterà di rendersi protagonisti del proprio futuro, non lasciandosi abbindolare da pensieri come: “Al momento opportuno ci penserà lo Stato … tanto c’è tempo … e altre sciocchezze di questo genere.
La verità è che non c’è tempo e che lo Stato non ci penserà. A questo punto, credere il contrario non è ottimismo; è follia!

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