Consulenza finanziaria: gli italiani non vogliono pagarla

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Alcune (scomode) verità dell’ultimo Rapporto Consob

Il “VIII Rapporto sulle scelte di investimento delle famiglie italiane”, pubblicato pochi giorni fa, ha emesso come al solito alcuni verdetti piuttosto chiari che dovrebbero portare i rule makers e i diversi attori dell’industria finanziaria a compiere riflessioni serie e, magari, tempestive. C’è forse la speranza che possano essere forme di iniziativa personale da parte dei risparmiatori a condurre questi ultimi a investire sulla propria alfabetizzazione, ma l’evidenza empirica mostra che tale speranza – ad oggi – è quasi totalmente infondata.

Sono anni che indagini di questo tipo disegnano scenari preoccupanti relativi sia alla lacunosa cultura finanziaria e assicurativa degli italiani, sia ai loro comportamenti poco efficienti in questi ambiti, che purtroppo limitano nel tempo la riuscita di importanti obiettivi di vita e la capacità di garantire alle proprie risorse monetarie una capitalizzazione almeno in linea con l’inflazione.
È un problema serio, molto serio, che ha implicazioni spesso invisibili.

Con i risultati del Rapporto, siamo ancora una volta a prendere atto che poco e niente è cambiato da 10 anni a questa parte e che, relativamente al campione coinvolto:
▶ il 36% è incline all’ansia finanziaria (dato in crescita dal 2019);
▶ il 63% trova difficile risparmiare per obiettivi troppo lontani nel tempo;
▶ il 57% ritiene che gli intermediari finanziari siano poco o per nulla affidabili;
▶ l’80% ritiene complessa la gestione delle propri finanze personali a causa di una serie di fattori.

Prudenza, diffidenza e scarsa tolleranza al rischio rappresentano tre elementi significativi che hanno un impatto sul processo decisionale degli investitori e li conducono a soluzioni emotivamente di comodo, tenendoli però lontani da un approccio più idoneo a far crescere quella parte di patrimonio utile alla realizzazione di progetti esistenziali propri e dei propri familiari. Non è un caso se il 43% del campione interessato ha solo uno strumento in portafoglio e se metà di esso fa ricorso a Certificati di Deposito e Buoni Fruttiferi Postali, a conferma che è la sicurezza (almeno quella percepita) a guidare le scelte di investimento.

Consulenza a pagamento? No, grazie!

Continua a essere decisamente elevata la percentuale di coloro che non vogliono sostenere alcun costo per l’assistenza e i consigli degli esperti; ben il 57%, infatti, non è disposto a pagare per il servizio di consulenza. Sono certamente molteplici le ragioni di questa riluttanza ed è impossibile indagarle tutte, ma il punto è delicato e dovrebbe essere un tema su cui gli addetti ai lavori farebbero bene a interrogarsi, rifuggendo dai numerosi atteggiamenti autoreferenziali in cui incappano con preoccupante facilità.

Se poco meno del 20% indica la mancanza di fiducia come motivo per cui non ricorre alla consulenza, c’è un 26% che segnala i costi elevati come fattore inibente. Questo non significa che la restante parte ritenga equi i costi sostenuti, quanto piuttosto che non è in grado di identificarne la reale portata in modo corretto. Eppure, la MiFID II e la rendicontazione dei costi ex-post avrebbe dovuto dare un aiuto rilevante in tal senso, ma la cortina fumogena alzata da molti intermediari su questo elemento la dice lunga sulla loro reale volontà di trasparenza. 

Anche agli architetti delle logiche di compliance va segnalato che per il 68% degli interessati la scarsa diffusione della consulenza è da attribuire alla scarsa conoscenza del principio di valutazione di adeguatezza, espressione ‘mifidiana’ la cui concretezza risulta spesso ostica persino per gli addetti ai lavori. È risaputo che termini e concetti dal significato troppo tecnico creino distanza e diffidenza nell’uomo della strada. Quindi, chi si deve preoccupare di semplificare le cose? Troppo spesso, purtroppo, la maledizione della conoscenza continua a mietere vittime.

Alcuni cattivi esempi provenienti dal mondo dell’industria finanziaria impediscono a tanti clienti di capire fino a fondo il ruolo di un professionista dedicato su cui poter contare nella gestione dei propri risparmi. Clienti sfiduciati, che raramente sono dotati di un’idonea cultura in materia, patiscono passivamente tali esempi e reagiscono facendo di tutte le erbe un fascio, estendendo quella sfiducia a tutti coloro che si etichettano come consulenti, a prescindere dalle effettive competenze e dalla professionalità del singolo.

La consulenza di mio cugino

Anche in ragione di questi aspetti, si ravviva la strisciante sensazione di non aver bisogno di un consulente per gestire i propri risparmi o per individuare efficaci piani di investimento. Come già detto in passato in merito a questo tema, ritengo che non ci sia alcun obbligo da parte dei risparmiatori di avere a tutti i costi un professionista a cui affidare tali compiti, a condizione che il fai-da-te sia effettivamente basato su strategie efficienti, e non sull’improvvisazione o sul sentito dire. Ahimè, l’evidenza mostra come la rinuncia a una figura specializzata sia dettata da ben altri fattori.

In tal senso, il Rapporto Consob fa emergere un dato piuttosto chiaro: il 45% del campione coinvolto si affida alla consulenza informale. Cosa significa? Per consulenza informale si intende la serie di indicazioni e consigli, più o meno estemporanei, richiesti o ricevuti da parenti, colleghi, amici e altri soggetti privi di una fondata competenza in materia. Rispetto al rapporto dell’anno scorso, questa percentuale è aumentata di 8 punti! Ti faresti preparare la torta di compleanno di tuo figlio dal tuo meccanico di fiducia? E, per converso, perché non chiedere all’esperto pasticciere di dare un’occhiata a quell’ammortizzatore forse un po’ scarico?

Al di là delle provocazioni, il punto in questione è comprendere le possibili ragioni di questi comportamenti apparentemente insensati, che portano le persone (a fidarsi e) ad affidarsi alle dritte del collega o del cugino di turno che ha un amico che sa veramente il fatto suo sugli investimenti e che ha guadagnato un sacco di soldi, sebbene preferisca continuare a fare il portiere di notte. Come stupirsi se il 41% degli intervistati sostiene di conoscere il bitcoin, mentre solo il 30% sa cosa sia un’azione o un’obbligazione? La familiarità scambiata per conoscenza e un mix di overconfidence e di illusione di controllo favoriscono la percezione che basta poco per sapere cosa fare dei propri soldi.

È comodo pensare che la responsabilità sia tutta da attribuire ai clienti, dipinti come pernnemente diffidenti, eccessivamente liquidi e capaci di fare scelte esclusivamente di carattere conservativo. Il quadro attuale, tuttavia, è ben più complesso ed è evidente che – nonostante lo sforzo dei soggetti che ci mettono il nome e la faccia – i buoni propositi dei programmi istituzionali di alfabetizzazione dei cittadini viaggiano troppo a rilento e, al momento, sono sconosciuti ai più. Il tempo non gioca a favore di nessuno, eccezion fatta per coloro che sull’ignoranza dei clienti speculano in modo più o meno indisturbato, fregiandosi nel frattempo di etichette etiche.

Tradurre la consapevolezza in azione

Dal Rapporto citato emerge anche un elemento confortante da cui partire: il 66% del campione si dice interessato all’educazione finanziaria e propenso ad apprendere. Di certo una buona notizia, considerando che questo dato è in crescita di 10 punti percentuali rispetto al 2021. Più frammentate le percentuali in merito a chi dovrebbe assumersi l’onere di tale educazione: gli intermediari (32%), le istituzioni (30%) o la scuola (26%). È pacifico che in questo frangente tutte e tre queste entità debbano essere cointeressate ad alimentare il sapere finanziario, affinché anche il livello di consapevolezza dei fruitori cresca; a tendere, tuttavia, sarebbe necessario che fossero soprattutto le istituzioni e la scuola a farsi carico di tale dovere.

Agli intermediari, o più in particolare ai professionisti che curano la relazione, va affidato il compito di aiutare i clienti a passare dalla consapevolezza all’azione. In moltissimi casi, infatti, emerge chiaro che a latitare non sia tanto la presa di coscienza dei risparmiatori, quanto la capacità di trasformare l’intenzione in azione. A questo proposito può essere determinante la presenza di un professionista di fiducia che si assuma il compito di stimolare il cliente ad agire secondo i modi e, soprattutto, i tempi concordati in fase pianificatoria, limitando il più possibile la tendenza alla procrastinazione, che spesso zavorra la volontà anche dei soggetti più determinati.  

In questo scenario, ben vengano le ricerche, come quella del Rapporto Consob a cui si è fatto riferimento. Sono utili per comprendere lo stato dell’arte e tracciare linee guida che possano produrre un miglioramento della cultura media, e quindi anche dei comportamenti, degli investitori. Un ultimo invito, tuttavia, lo faccio idealmente anche ai redattori dell’indagine in questione, pregandoli di non cadere, come troppo spesso accade anche in altri ambiti, nella tentazione di inglesizzare termini e concetti che possono essere meglio compresi se riportati nella nostra lingua.

In particolare:
calcolo è preferibile a numeracy
atteggiamento verso il denaro è preferibile a money attitude
risparmiatore inadeguato è preferibile a saver at risk
risparmiatore efficace è preferibile a savvy saver
pianificatore esperto è preferibile a savvy planner
investitore esperto è preferibile a savvy investor

Ogni dettaglio può fare la differenza e se anche i clienti cominciassero a leggere questi report (come è auspicabile che sia), ecco che la chiarezza può diventare l’anticamera della comprensione, e la comprensione il preludio per la motivazione.

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